La cantatrice calva

LA CANTATRICE CALVA

regia di Antonio Ligas

 

LA CANTATRICE CALVA
o dell’ossessione di vivere
di Eugène Ionesco

Decidere di mettere in scena La Cantatrice Calva è sicuramente rischioso: personalmente equivale a dichiarare senza mezzi termini che la vita è inutile e che ogni sforzo per renderla qualcosa di logicamente attendibile è profondamente stupido.
Attenzione: il precetto non vuole seguire una linea filosofica di stampo esistenzialista e men che meno nichilista, si tratta di pura e semplice constatazione, di una presa di coscienza pressoché banale come dire: “non esiste più la mezza stagione!”.
Cinque dei sei personaggi che abitano un qualunque salotto di una qualunque zona limitrofa in una qualunque Londra del mondo, non raccontano niente di reale, anzi non raccontano proprio nulla: nessun fatto specifico, nessuna storia, niente di niente.
Anche nominarli personaggi risulta improprio; forse si tratta di ombre, definite nei contorni ma sicuramente prive di sostanza.
Sono esseri, senza scopo, che danno fiato alle loro bocche per articolare un eterno BLA BLA al fine di sopportare un’esistenza di solitudine incolore, fissa, inerte, orribilmente immobile.
Perfino l’ultimo ospite in ordine d’apparizione è emblema di una disperata illusione, anche lui è vittima delle proprie convinzioni anzi convenzioni!
Se le due coppie – gli Smith e i Martin – si affaticano a seguire stereotipi sociali e linguistici per distinguersi e non rimanere schiacciate dal peso di un’omogeneità disperante – che li renderebbe probabilmente meno assurdi, ma sicuramente meno “socialmente felici” – l’ultimo astante si difende con la propria apparenza: avere un lavoro è già essere qualcosa; una professione è una motivazione che aiuta a sopportare l’impassibile immobilità della vita. Sapere di fare qualcosa lo identifica e lo distingue in qualche misura dall’anonimato se non proprio dal non essere.
Ma alla fine l’inconsistenza del suo dire sgretola anche lo scudo della professione e lo precipita, insieme agli altri suoi pari, nel magma dell’assurdo e dell’incoerente, dell’intollerabile essere identici agli altri e perciò nella consapevolezza di essere interscambiabile – come dire non indispensabile -.
Potrei definire questo spettacolo la presa visione di un naufragio metafisico su un oceano di parole sconnesse e frasi scontate; eppure queste tanto deprecabili convenzioni sociali sono necessarie per non annegare o per nascondersi gli uni dagli altri o per colmare gli abissi di non essere sui quali i nostri (eroi?) barcollano come equilibristi su un sottilissimo filo.
Ciò che ci accingiamo a osservare è un sogno, un dialogo onirico e delirante che qualcuno sta rigurgitando dalla bocca del proprio inconscio e noi siamo lì, spettatori attoniti di questo bizzarro inferno infermo, traghettati da un Caronte travestito da cameriera che ci terrorizza con la sua aria innocente e incredula, sorpresa dalla nostra curiosità immotivata di esperire l’inesprimibile alla ricerca di una risposta assoluta.
Ma qua di assoluto c’è solo il nulla, qualcosa che supera di gran lunga il concetto di morte o di al di là.

 

con Sara di Bartolomeo, Serena Cefaratti, Marzia Furlan, Laura Giancola, Irma Pia La Guardia, Lorenzo Mastrogiuseppe.

regia Antonio Ligas